I campi di rieducazione attraverso il lavoro sono stati ufficialmente aboliti in Cina ormai alcuni mesi fa, ma di fatto nulla è cambiato a parte la denominazione: Centri per il rimprovero. A denunciarlo, avvocati, attivisti politici ma anche la gente comune attraverso il web. Il grido di allarme è partito dalla provincia dell’Henan, nel centro del paese, dove i nuovi centri ”ospitano” ufficialmente persone con problemi di tossicodipendenza, ma in gran parte dissidenti e persone che si sono recate a vario titolo a presentare petizioni al governo di Pechino. Il tam tam di commenti e reazioni è stato cosi’ asfissiante che ieri sera il governo provinciale dell’Henan ha ordinato la chiusura dei centri di rimprovero. In questi centri i detenuti sono sorvegliati a vista, 24 ore al giorno, senza alcuna privacy e vengono sottoposti a una continua rieducazione, una sorta di lavaggio del cervello. Poco o niente di diverso rispetto ai vecchi campi di rieducazione attraverso il lavoro. Come hanno denunciato in molti, a cambiare è stato solo il nome. La sostanza è invariata, in quanto in entrambi i casi si tratta di forme di detenzione extragiudiziale. Anzi, se possibile, hanno commentato molti utenti in rete, questi nuovi centri potrebbero rivelarsi persino peggiori in quanto meno regolamentati dei primi. Nel caso dei campi di rieducazione infatti la legge espressamente prevedeva che una persona potesse essere detenuta fino a un massimo di 4 anni senza essere sottoposta a processo dopodiché o il caso doveva essere passato alla pubblica accusa per instaurare un processo o la persona veniva liberata. Nel caso dei centri di rimprovero, viene da più parti sottolineato, la mancanza di regole precise potrebbe addirittura rendere possibili arbitri maggiori e detenzioni anche illimitate. Familiari di persone che sono state imprigionate in questi centri denunciano poi abusi e condizioni disumane di vita. Il figlio di una donna settantenne, detenuta in un centro di rimprovero per aver fatto una petizione al governo di Pechino, ha raccontato che sua madre è stata trattenuta per circa due settimana in una stanzetta piccola, senza neanche un letto o un bagno. Inoltre, nonostante la donna fosse diabetica e necessitasse di cure, il centro non le ha fornito le medicine necessarie, facendole così anche rischiare la vita. Secondo un rapporto dello scorso dicembre di Amnesty International, i centri di rimprovero non sono la sola nuova forma di detenzione extragiudiziale ad aver rimpiazzato i campi di lavoro. Le cosiddette ”carceri nere”, i centri di riabilitazione per le tossicodipendenze, e i ”centri per il lavaggio del cervello” sono tutte forme extragiudiziali ancora in uso che rendono l’abolizione dei campi di lavoro decisa da Pechino, come hanno osservato molti utenti della rete con commenti sui vari microblog, una operazione di mera facciata, senza alcun effettivo valore sostanziale.
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Da oggi in Cina più figli e niente più campi di rieducazione attraverso il lavoro?
In un solo colpo, la Cina si libera (almeno in parte) di due delle sue leggi più odiate, in patria e all’estero: quella che impone il figlio unico e quella che prevede la rieducazione attraverso i campi di lavoro. La decisione, di cui si parlava da gennaio, poi annunciata a novembre durante i lavori del comitato centrale del partito comunista cinese, è stata formalmente approvata oggi dal Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo. Il Comitato ha deciso di mettere la parola fine ai laojiao, i campi di lavoro istituiti negli anni 50, dove fino ad oggi venivano rinchiuse persone ritenute colpevoli di reati minori (crimini contro il patrimonio, prostituzione, consumo di droga) ma anche oppositori al regime, postulanti, religiosi e fedeli di ogni fede. Chi vi veniva rinchiuso riceveva un modesto salario per il lavoro e non perdeva i diritti politici. Secondo Nuova Cina, che diffonde dati relativi al 2008, sarebbero 350 i campi di rieducazione, nei quali sono rinchiuse 160.000 persone, mentre altre fonti televisive cinesi parlano di 300.000 reclusi. Ma i numeri come sempre sono ballerini: secondo l’ultima edizione (2008) del dossier della Ong americana Laogai Foundation (fondata da Harry Wu che ha trascorso in un laogai dal 1960 al 1979) in Cina ci sarebbero 1422 campi attivi. Il problema è ora capire che fine faranno le persone recluse e i campi. La risoluzione del comitato permanente sottolinea che “tutte le pene legate ai laojiao prima della abolizione del sistema resteranno valide. Dopo l’abolizione, coloro che stanno scontando la pena saranno liberati. Non saranno prolungati i loro termini”. Ma non tutti credono nella totale abolizione del sistema. Su internet e tra chi si batte per i diritti civili in Cina c’e’ scetticismo, soprattutto perchè alcuni laojiao sono stati già tramutati in “prigioni legali” o in “campi di riabilitazione per tossicodipendenti” dove religiosi (soprattutto membri della Falun Gong, come denunciato dalla stessa organizzazione) sono stati trasferiti. Potrebbe essere smorzato anche l’entusiasmo per l’altra riforma: l’allentamento della politica del figlio unico. Rispetto al testo attuale (già soggetto a deroghe), la riforma prevede il permesso del secondo bambino, limitatamente ai centri urbani e per le coppie nelle quali uno dei due coniugi sia figlio unico, mentre oggi tale ‘privilegio’ è riservato alle coppie composte da due figli unici. Prima dell’entrata in vigore di questa nuova disposizione, in Cina potevano avere più figli gli appartenenti a minoranze etniche e residenti di determinate regioni. Il secondo figlio è inoltre permesso a coloro che hanno come primo figlio una femmina o un malato. Alla base della decisione del Comitato, ci sono soprattutto le proteste dei cinesi. La legge del figlio unico e’ una delle più odiate: viene applicata anche con metodi brutali da funzionari locali che, non volendo sfigurare con i loro superiori, ricorrono anche alla forza oltre che a multe salate per evitare nascite in coppie che hanno già figli. Senza poi contare che in mancanza di un sistema previdenziale totale, ci si deve basare sull’unico figlio per assicurarsi la vecchiaia e con gli alti costi della vita in Cina, non tutti riescono ad aiutare i genitori. Ma la necessità di cambiare la legge del 1980, nasce anche dai dati demografici. Per la prima volta in decenni, la forza lavoro di circa 940 milioni, è diminuita l’anno scorso di 3,45 milioni. E secondo le previsioni in questo decennio dovrebbe diminuire di altri 29 milioni. Inoltre, aumenta la popolazione degli anziani: gli over 60 sono il 14,3% e diventeranno un terzo della popolazione nel 2050. Problemi anche per il bilanciamento tra i sessi: su 100 femmine, nel 2012 c’erano 118 maschi. Dopo essere stata tanto invocata, la legge che abolisce il figlio unico – e che dovrebbe entrare in vigore entro il primo trimestre 2014 – potrebbe essere rallentata dalla crisi economica, oltre che da aspetti legislativi ancora tutti da chiarire.
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Xi Jinping: solo il socialismo e le riforme possono salvare la Cina
Proseguire sulla strada intrapresa 35 anni fa con la politica di “riforme e apertura” dell’allora leader cinese Deng Xiaoping, senza cedere di un centimetro sul terreno del potere politico, che deve rimanere saldamente nelle mani del Partito Comunista, perchè “solo il socialismo può salvare la Cina”. Questo il significato di un intervento dell’attuale numero uno cinese, Xi Jinping, affidato all’agenzia Nuova Cina poche ore dopo l’annuncio di una serie di riforme, a partire dall’ammorbidimento della legge sul figlio unico e dall’abolizione della “rieducazione attraverso il lavoro”, un sistema di repressione extragiudiziale che per oltre sei decenni è stato usato dalla polizia cinese per contenere il dissenso politico e la piccola criminalità. L’intervento diretto di Xi per spiegare la decisione di proseguire “risolutamente” sulla via delle riforme economiche conferma l’opinione degli osservatori che l’hanno definito il leader cinese “più potente” dopo Deng Xiaoping. A Deng, il “piccolo timoniere” che lanciò la Cina verso il sistema misto di socialismo e capitalismo che l’ha portata a diventare la seconda economia del mondo, Xi ha reso omaggio, affermando che “solo le riforme economiche e l’apertura possono far sviluppare la Cina, il socialismo e il marxismo”. “Una corretta relazione tra il mercato e lo Stato rimane il fondamento delle riforme economiche della Cina. Ma lasciar decidere il mercato – ha chiarito il leader – non significa che il mercato debba decidere tutto”. Tra le decisioni prese dal comitato centrale comunista che si è riunito a Pechino dal 9 al 12 novembre nella sua terza riunione plenaria, ci sono la formazione di due nuovi organismi: un comitato che dirigerà il lavoro sulle riforme e un consiglio per la sicurezza nazionale modellato sul National Security Council statunitense. Sulla composizione di questi organismi non sono stati diffusi dettagli ma, dopo l’annuncio della nuova stagione di riforme, pochi dubitano che saranno dominati da Xi Jinping e dai suoi seguaci. Non si è finora parlato di un ruolo del premier Li Keqiang, che secondo alcuni osservatori potrebbe essere stato emarginato a causa dei suoi legami con l’ex presidente Hu Jintao. Nel suo intervento, Xi Jinping parla solo del secondo, la cosiddetta Commissione per la Sicurezza Nazionale. Il leader cinese afferma che la sua creazione “rafforza la concentrazione e la coesione della leadership delle operazioni legate alla sicurezza nazionale ed è per noi una priorità”. Da quasi due anni la tensione tra la Cina e alcuni dei suoi vicini – Giappone, Filippine, Vietnam – per dispute territoriali si è intensificata. Pechino deve anche far fronte alla permanente instabilità nelle regioni di confine, il Tibet e il Xinjiang, abitate da minoranze etniche che contestano le politiche governative. Quest’anno, le spese della Cina per la difesa aumenteranno del 10,7%, confermando una tendenza in atto dall’inizio degli anni Novanta.
fonte: Beniamino Natale per ANSA
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Svelate le riforme del Comitato centrale: anche legge del figlio unico e abolizione campi lavoro
La Cina ha annunciato oggi una serie di profonde riforme, diffondendo i dettagli del documento approvato all’ inizio della settimana dal comitato centrale del Partito Comunista Cinese dopo una riunione di quattro giorni a Pechino. L’ ondata di riforme copre tutti – o quasi – i punti annunciati nelle settimane scorse e porta l’ inconfondibile impronta del presidente Xi Jinping e dei suoi piu’ stretti collaboratori, che confermano cosi’ di aver rafforzato nei mesi scorsi il loro controllo sul Partito. I cambiamenti annunciati vanno da una maggiore apertura verso il settore privato dell’ economia, alla convertibilita’ dello yuan fino all’ ammorbidimento della legge sul figlio unico e della politica dei permessi di residenza (gli ”hukou” in cinese). Si parla inoltre della graduale abolizione del sistema di ”rieducazione attraverso il lavoro” e della riduzione dei reati punibili con la pena di morte. La conferma della abolizione della ”rieducazione attraverso il lavoro”, annunciata mesi fa e poi apparentemente dimenticata, e’ particolarmente significativa, perche’ nei giorni scorsi fonti vicine al Partito avevano affermato che Xi Jinping aveva trovato su questo punto una forte opposizione all’ interno del gruppo dirigente. Come previsto, nel documento non si fa cenno ad un allentamento del controllo del Partito Comunista sulla vita politica del Paese, che anzi appare avviato a rafforzarsi con nuovi, stringenti controlli sui media e in particolare su Internet, che gia’ subisce una serie di forti restrizioni come il blocco dei principali siti di comunicazione sociale da Twitter a Facebook a Youtube. Mentre l’ agenzia Nuova Cina annunciava le decisioni sulle riforme, i siti web dei media occidentali che riportavano la notizia sull’ inchiesta aperta negli Usa sui rapporti tra la banca d’ affari J.P.Morgan e la figlia dell’ ex-premier Wen Jiabao, erano bloccati. Tra gli altri, sono risultati inaccessibili il sito del New York Times – che per primo ha riportato la notizia – quello dell’ agenzia Reuters e del Wall Street Journal. In alcuni casi le affermazioni del nuovo documento sono vaghe e appaiono piu’ come una dichiarazione d’ intenti che come misure concrete. Sul ruolo dominante della imprese e delle banche statali, ad esempio, il documento si limita ad affermare che ”saranno prese misure…per spezzare i monopoli e introdurre la competizione”, ma non si dice quali. In un primo commento a caldo, un ”alto funzionario americano” citato dall’ agenzia Reuters sostiene che i leader cinesi hanno indicato di essere fortemente impegnati sul terreno delle riforme economiche ma che ”…il problema e’ quanto e con quanta velocita”’. La volonta’ riformista del nuovo gruppo dirigente, salito al potere un anno fa, e’ dettata dalla necessita’ di modificare gradualmente la struttura dell’ economia cinese, dopo che il modello basato sulle esportazioni a basso costo ha cominciato a mostrare la corda. Per quest’ anno un tasso di crescita del 7-7,5% sara’ considerato soddisfacente: una grossa differenza dai tassi a due cifre del primo decennio del secolo. La diffusione del documento con i dettagli delle decisioni del cc era prevista per la prossima settimana. Potrebbe essere stata anticipata, secondo gli osservatori, dopo la negativa reazione dei mercati finanziari, che hanno reagito con decisi ribassi alla genericita’ del primo documento diffuso alla fine dei lavori del cc, martedi’ scorso.
fonte: Beniamino Natale per Ansa
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Modifica alla legge del figlio unico, più coppie potranno avere due figli
Alla fine, anche il tabù della legge del figlio unico è stato infranto, anche se la stessa norma non è stata abrogata del tutto. La terza sessione plenaria del comitato centrale del partito comunista, conclusa tre giorni fa ma le cui risultanze sono state rese note solo oggi, ha deciso che nelle città verrà permesso di avere più di un bambino alle coppie nelle quali uno dei due coniugi sia figlio unico, mentre oggi questo privilegio è riservato alle coppie composte da due figli unici. Una rivoluzione non da poco e che va in qualche modo a sanare alcune difficili situazioni. Secondo i dati ufficiali, dal 1980, quando la norma è entrata in vigore, si è impedita la nascita di almeno 400 milioni di cinesi. Era il 25 settembre del 1980 quando il comitato centrale del partito comunista cinese inviò una lettera nella quale si invitavano i membri del partito e quelli della lega giovanile comunista ad avere un solo figlio per migliorare la qualità della vita. “Più bambini consumano più soldi e più cibo – era scritto nella lettera – che ostacolano il miglioramento degli standard di vita, e per il Paese, la crescita della popolazione potrebbe incidere sull’accumulazione di fondi per la modernizzazione della nazione”. La politica del figlio unico ad oggi tocca il 63% della popolazione cinese. La legge è odiata dalla gente per una serie di ragioni: la prima è che viene applicata anche con metodi brutali da funzionari locali che, non volendo sfigurare con i loro superiori, ricorrono anche alla forza (oltre che a multe salate) per evitare nascite in coppie che hanno già figli. Senza poi contare che in mancanza di un sistema previdenziale totale, ci si deve basare sull’unico figlio per assicurarsi la vecchiaia e con gli alti costi della vita in Cina, non tutti riescono ad aiutare i genitori. I figli, dal canto loro, spesso sono stressati perché i genitori ripongono nell’unico discendente tutte le loro aspirazioni. La mossa del partito nasce da motivazioni più terrene: mancano i giovani, mancano i lavoratori, la popolazione invecchia. Per la prima volta in decenni, la forza lavoro, di circa 940 milioni, è diminuita l’anno scorso di 3,45 milioni. In questo decennio, dovrebbe diminuire di altri 29 milioni. Inoltre, aumenta la popolazione degli anziani: gli over 60 sono il 14,3% della popolazione e diventeranno un terzo della popolazione nel 2050. Problemi anche per il bilanciamento tra i sessi: su 100 femmine, nel 2012 c’erano 118 maschi. L’idea del partito è di contenere comunque la popolazione sotto il miliardo e mezzo, portando il tasso di fertilità a 1,8, dall’1,5 dove si trova ora. Eccezioni già c’erano: per le minoranze etniche e in alcune regioni, ad esempio i figli unici che si sposano possono avere due figli, oppure il secondo figlio è permesso a coloro che hanno per primo figlio una femmina o un malato.
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Aboliti i campi di lavoro in Cina. Qualcosa si muove.
Via i campi di lavoro dall’ordinamento cinese, in nome del rispetto per i diritti umani. Qualche giorno fa, quando la Cina è entrata nel Consiglio dei diritti umani dell’Onu, in molti hanno criticato la scelta del Palazzo di vetro, dal momento che il Paese del dragone non solo non ha mai permesso agli ispettori della stessa organizzazione visite sul suo territorio, ma è colpevole di diverse violazioni. Oggi, a sorpresa, la decisione – presa dal comitato centrale – di abolire la pratica della “rieducazione attraverso il lavoro”, i cosiddetti laojiao (abbreviazione di ‘laodong jiaoyang’). Sarà ridotto anche il numero dei crimini puniti con la pena di morte e vietata la tortura per estorcere confessioni. Un ruolo importante sarà dato agli avvocati, nella “tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini e delle imprese, in linea con la normativa di legge”. Dell’abolizione dei campi di lavoro già si parlava da tempo: un annuncio in tal senso era stato fatto a gennaio e alcune province ne avevano annunciato l’eliminazione. In questi, la polizia può inviare persone fino a 3 anni (con possibilità di estensione di un anno, ufficialmente), senza processo. Negli ultimi mesi diverse volte la pratica era stata criticata anche dalla stampa cinese vicina al partito. In particolare ad agosto una donna era stata condannata a 18 anni per aver protestato chiedendo una pena pesante nei confronti dell’uomo che era stato condannato a sette anni per aver rapito, violentato e indotto alla prostituzione sua figlia di 11 anni. La donna fu liberata dopo una settimana dopo che giornalisti, scrittori, gente comune e accademici si mobilitarono in suo favore. Le critiche al sistema dei laojiao muovono anche dal fatto che la loro pratica è in contraddizione con la costituzione cinese. Secondo Nuova Cina, che diffonde dati relativi al 2008, sarebbero 350 i campi di rieducazione, nei quali sono rinchiuse 160.000 persone, mentre altre fonti televisive cinesi parlano di 300.000 reclusi. Ma i numeri come sempre sono ballerini: secondo l’ultima edizione, 2008, del dossier della Ong americana Laogai Foundation (fondata da Harry Wu che ha trascorso in un laogai dal 1960 al 1979) in Cina ci sarebbero 1422 campi attivi. Il laogai è diverso dal laojiao: nel primo, chiamato prigione dal 1990, ufficialmente cancellato dal 1997 (ma la condanna ai lavori forzati resta), il condannato veniva spedito dopo una sentenza di tribunale per reati maggiori, non veniva pagato e perdeva i diritti politici. Nel secondo, invece, vengono rinchiuse persone ritenute colpevoli di reati minori (reati contro il patrimonio, prostituzione, consumo di droga) ma anche oppositori al regime, postulanti, religiosi e fedeli. Ricevono un modesto salario per il loro lavoro e non perdono i diritti politici. L’annuncio di oggi lascia però il campo a molte speculazioni, soprattutto su cosa succederà a coloro che sono attualmente rinchiusi nei campi o cosa succederà a coloro che saranno ritenuti colpevoli in futuro dei reati che ora portano ai laojiao.
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Forchielli: si parla di China dream ma Pechino censura Prodi
I cinesi ”parlano tanto di ‘China dream”’, ma ci spieghino al più presto cosa significa perché, se è un sogno di potere, non va bene”. E’ dura l’analisi nei confronti della Cina che arriva dal presidente dell’Osservatorio Asia Alberto Forchielli, allarmato anche dalla censura nel paese. ”Il quotidiano del Popolo ha censurato un articolo di Romano Prodi riducendolo alla metà”, sottolinea Forchielli, in occasione del decimo convegno annuale dell’Osservatorio, che si è tenuto alla Camera di Commercio di Milano. Forchielli punta il dito anche contro il ‘terzo plenum’ del Partito Comunista Cinese, che si è impegnato ad avviare una nuova fase, riconoscendo maggiore spazio al mercato. ”Hanno delegato tutto ad un organismo – commenta Forchielli – sembra la Commissione dei 35 saggi di Letta”. L’assemblea del Pcc non ha affrontato i temi ”veramente importanti” per il cambiamento, aggiunge. Inoltre, negli ultimi anni, ”i cinesi sono diventati arroganti e hanno cambiato atteggiamento nei nostri confronti”, dice Forchielli osservando che ”molti italiani stanno venendo via dalla Cina”. ”Non credo che la Cina continuerà a crescere del 7%. Nel giro di quattro o cinque anni il tasso di crescita scenderà intorno al 4%”. La previsione è del presidente dell’Osservatorio Asia, a margine del decimo convegno annuale dell’organismo. ”Non vedo una corsa felice al secolo cinese” aggiunge Forchielli sottolineando che hanno ”problemi energetici infiniti, carenza di gas e petrolio, un calo dell’acqua”, così come problemi demografici (”toppi vecchi”) e ambientali, spiega il presidente dell’osservatorio puntando anche il dito contro ”le banche politicizzate, la burocrazia, i developer immobiliari e i governi locali”.
fonte: ANSA
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Dubbi sulle riforme di Xi Jinping, mercati scettici
Le conclusioni della riunione del comitato centrale comunista – diffuse ieri dopo quattro giorni di lavori a porte chiuse in un albergo alla periferia di Pechino – hanno suscitato reazioni diverse tra gli osservatori. Ma il mercato, che secondo il documento programmatico diffuso dal cc dovrà assumere nei prossimi anni un ruolo “decisivo” nell’economia cinese, si è mostrato assai scettico. La Borsa più importante del Paese, quella di Shanghai, ha registrato un calo dell’ 1,8%, in un chiaro segno che ci si aspettava qualcosa di più dal terzo plenum. Stesso andamento ad Hong Kong, dove la frenata è stata dell’1,9%. Un analista della Bank of America Merrill Lynch ha sostenuto che “non c’è nulla di nuovo sul fronte delle riforme” e che “i dirigenti cinesi sembrano anteporre la stabilità alle azioni decise”. Di diverso parere Xu Hongcai, del China Centre for International Economic Exchanges di Pechino, un centro studi legato al governo, secondo il quale il maggior ruolo previsto per il mercato “è la grossa novità del documento”. “Significa – ha proseguito – che l’intervento dello Stato nell’economia sarà ridotto e che l’attività del governo sarà più orientata ai servizi pubblici”. Lo scetticismo prevale tra gli osservatori stranieri. L’autorevole Financial Times ha scritto che “il Partito ha chiarito che continuerà ad occupare il posto di comando dell’economia cinese. Il documento sembra escludere qualsiasi serio sforzo di ridurre il potere delle compagnie statali in settori come la finanza, l’energia, le telecomunicazioni e i trasporti”. In un commento sul Wall Street Journal, il sinologo ed economista Russel Leigh Moses ha sostenuto che nel plenum del comitato centrale “gli sconfitti sono stati i riformisti, incluso (il presidente della Repubblica e segretario del Partito) Xi Jinping”. Sintetizzando, Moses afferma che in conseguenza del documento “gli imprenditori privati potranno sedere accanto al guidatore, ma non potranno guidare”. I sostenitori della tesi opposta – cioè che il comitato centrale ha segnato punti a favore delle riforme – ricordano che in passato le riunioni del cc hanno avuto il ruolo di elaborare dei documenti di indirizzo generale sul quale è stato raggiunto un consenso nel gruppo dirigente, e che per i dettagli – e quindi per le misure incisive – si dovrà attendere un ulteriore documento, che potrebbe essere diffuso già la prossima settimana. In molti commenti viene inoltre sottolineato il fatto che è stata decisa la creazione di due nuovi organismi, uno incaricato di “approfondire in tutti i sensi le riforme” e uno che sarà responsabile della sicurezza nazionale. Sulla composizione di questi organismi non sono stati forniti dettagli ma l’interpretazione prevalente è che indichino un rafforzamento delle posizioni del nuovo gruppo dirigente guidato dallo stesso Xi Jinping e dal premier Li Keqiang, che ha promesso riforme nel campo economico senza mettere in discussione la struttura politica autoritaria che lascia tutto il potere politico nelle mani del Partito.
fonte: Beniamino Natale per ANSA
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“Lezione da Medio Oriente” per lo Xinjiang musulmano
La Cina deve mettere in pratica nella Regione Autonoma del Xinjiang, con una forte presenza musulmana, la lezione che viene dalle recenti rivolte popolari nel mondo arabo. Lo ha affermato oggi Zhang Chunxian, capo del Partito Comunista nella regione, che nel 2009 e’ stata teatro di violenze interetniche che hanno causato la morte di quasi duecento persone. ”Se vogliamo la stabilita’ a lungo termine – ha sostenuto – dobbiamo assicurarci che la popolazione possa realmente beneficiare dei frutti delle riforme e dell’ apertura”. Parlando con un gruppo di giornalisti in una pausa dei lavori dell’ Assemblea Nazionale del Popolo (Npc), riunita da sabato scorso a Pechino, Zhang si e’ dichiarato sicuro che la calma e’ tornata nella regione. La popolazione originaria del Xinjiang, di etnia uighura, lamenta di essere tenuta ai margini dello sviluppo i cui benefici vanno soprattutto agli immigrati di etnia cinese provenienti dalle aree sovrappopolate della Cina centrale e orientale. ”Al momento – ha detto Zhang – ho una fiducia totale nella stabilita’ del Xinjiang. Non ho alcuna preoccupazione. Ma, a un livello tecnico, dobbiamo imparare la lezione del Medio Oriente”. Zhang, un tecnocrate e’ stato chiamato l’ anno scorso a sostituire il ”duro” Wang Lechuan, non ha specificato di quali lezioni si tratti. Amnesty International ha affermato nei giorni scorsi che nel Xinjiang continua la repressione verso i dissidenti uighuri, che vengono processati e condannati a pesanti pene detentive in processi ”segreti”. ”Questi processi hanno creato un’ atmosfera di terrore tra gli intellettuali uighuri che vivono in Cina”, ha denunciato Catherine Baber, vicedirettrice di Ai per l’ Asia/Pacifico. In seguito alle violenze del 2009 sono state arrestate nel Xinjiang un migliaio di persone. Sono state emesse un alto numero di condanne, almeno 26 delle quali alla pena capitale. A queste si sono aggiunte le condanne a morte inflitte in febbraio a quattro uighuri per episodi di violenza che si sono verificati nel 2010. Le cifre sono imprecise e basate sulle indagini dei gruppi umanitari internazionali, perche’ il governo cinese le tiene segrete. Il Xinjiang confina con India, Pakistan e Asia centrale ed e’ ricco di risorse naturali tra cui gas e petrolio. Oggi ha 26 milioni di abitanti, in maggioranza immigrati cinesi. Il resto e’ formato da circa nove milioni di uighuri, di religione islamica, e da altre piccole minoranze di etnie originarie dell’ Asia centrale come i kirghizi e i tajiki.
fonte: ANSA
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