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Giornalista scappato dalla Cina riappare dopo 22 giorni

La moglie di Li Xin, un giornalista cinese scomparso mentre cercava asilo all’estero, ha detto all’AP di aver parlato con il marito che gli ha detto di essere tornato volontariamente in Cina per le indagini. Ma la donna crede sia stato costretto a tornare indietro dalle autorità. He Fangmei ha parlato con suo marito Li Xin oggi, quando è stata chiamata in una stazione di polizia per ricevere la chiamata. Il ritorno di Li in Cina sarebbe l’ultimo esempio delle azioni di Pechino oltre i confini del paese nei confronti di coloro che sono ricercate dalle autorità. Negli ultimi tempi si sono diffusi in rete alcuni documenti che dimostrano come la Cina abbia deciso di perseguire anche oltre confine coloro che sono scappati dal paese perchè perseguitati. Li era fuggito dalla Cina nel mese di ottobre e in una intervista all’AP dall’India aveva riferito di aver lasciato la Cina perchè era stato costretto a diventare un informatore. In seguito aveva cercato rifugio in Thailandia prima di far perdere sue notizie a gennaio.

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Da tre mesi detentuta giornalista cinese di Die Zeit

Una giornalista cinese che lavora come assistente del corrispondente a Pechino del settimanale tedesco Die Zeit, è in carcere da tre mesi con l’accusa di disturbo dell’ordine pubblico, spesso usata dalle autorità contro gli attivisti e i dissidenti. Zhang Miao lo scorso due ottobre era appena tornata da Hong Kong dove aveva documentato per la testata tedesca le proteste anti cinesi, quando è stata arrestata da quattro uomini. Anche la corrispondente della rivista tedesca, Angela Kockritz, è stata chiamata e interrogata dalle autorità, con la minaccia dell’arresto e in quanto la collega cinese l’avrebbe accusata. Anche da qui, la decisione per la Kockritz di lasciare la Cina. Per non inficiare il lavoro diplomatico con il quale si stava cercando la liberazione di Zhang, fino ad ora la Kockritz aveva deciso di non rivelare la notizia. Ma dopo tre mesi di detenzione, dopo che la collega cinese ha potuto incontrare solo a dicembre un avvocato, è stato deciso di far conoscere la storia. Le autorità cinesi hanno risposto sull’arresto che l’atto è stato compiuto in quanto la giornalista cinese non aveva i permessi adatti. E’ vietato a cinesi lavorare per giornali stranieri. I corrispondenti possono avere degli assistenti che comunque vengono istruiti dalle autorità sul lavoro. Secondo i dati diffusi da Freedom House, sotto Xi Jinping la pressione sui giornalisti soprattutto stranieri, è aumentata.

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Le autorità cinesi condannano l’attentato di Parigi, ma i giornali riflettono sulla libertà di stampa occidentale

Se le autorità cinesi hanno fermamente condannato l’attacco terroristico alla redazione del Charlie Hebdo, la stampa ufficiale, pur condannando l’episodio, ha chiesto una maggiore comprensionedei fatti. Secondo un editoriale del Global Times, giornale vicino alle posizioni del partito comunista cinese, “dal punto di vista d’Oriente, quello che Charlie Hebdo ha pubblicato non è completamente difendibile ed è comprensibile che alcuni musulmani si sentono male per le vignette nella rivista”. L’editoriale non firmato però sottolinea che questo “non può essere usata per giustificare un attacco che è andato oltre i confini civili di tutte le società”. Il quotidiano lamenta che l’ondata di sostegno internazionale ai fatti di Parigi non si è verificata quando la Cina ha subito attacchi terroristici, come Pechino ha definito gli scontri avuti tra le forze di polizia e la minoranza uighura. Per il giornale, infatti, “La lotta al terrorismo ha bisogno di un alto livello di solidarietà tra la comunità internazionale. Il mondo è sempre unificato nella sua risposta agli attacchi terroristici che si sono verificati in Occidente, ma quando è il turno dell’Occidente di reagire a questi attacchi in paesi come la Cina e la Russia, spesso giri di parole.”. Il sostegno dato ai giornalisti di Charlie, è per l’editoriale l’occasione per criticare la visione occidentale della libertà di stampa. “Notiamo che molti leader occidentali e media di tendenza – è scritto nell’articolo – hanno evidenziato il loro sostegno per la libertà di stampa nel commentare l’incidente. Questo rimane una questione aperta. La libertà di stampa si trova all’interno dei sistemi politici e sociali dell’Occidente ed è un valore fondamentale. Ma in questi tempi globalizzati, quando le loro azioni contraddicono con i valori fondamentali di altre società, l’Occidente dovrebbe avere la consapevolezza di facilitare i conflitti, invece di accentuando in conformità con i propri valori in un modo a somma zero.”. Per il Global Times, “poichè l’Occidente detiene predominio assoluto in giudizio globale, le società non occidentali possono a malapena far ascoltare nel mondo il loro disaccordo. L’Occidente deve controllare coscientemente il suo uso di “soft power”. Anche se l’Occidente pensa che sia giusto sostenere la libertà di stampa – contiua l’editoriale – vale ancora la pena rispettare i sentimenti degli altri. Se l’Occidente pensa della globalizzazione come ampliamento assoluto e la vittoria di certi valori, allora è in cerca di guai senza fine.”. Il Global Times chiude poi l’editoriale con l’invito all’Occidente ad essere “più mite nell’esprimere scontri culturali e prendere in considerazione i sentimenti di molti altri” cosa che “sarebbe molto gratificante e rispettabile”.

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Dopo quasi un anno, rilasciato giornalista arrestato, aveva denunciato potente

Le autorità cinesi hanno liberato su cauzione un giornalista detenuto per quasi un anno, mentre conduceva un’inchiesta sulla corruzione nella metropoli di Chongqing e nella provincia dello Shaanxi. Liu Hu, giornalista investigativo del New Express, quotidiano della metropoli meridionale di Guangzhou, era stato arrestato a fine agosto dell’anno scorso, dopo aver lanciato accuse in particolare su Ma Zhengqi, un potente dirigente politico che in passato e’ stato vicesindaco della metropoli di Chongqing. Nelle sue inchieste, Liu aveva più volte più volte accusato diversi funzionari di abusi di potere e corruzione. Per il suo legale, le accuse sono senza fondamento, anche se non è certo che l’inchiesta sia stata chiusa. Al suo rilascio, il giornalista ha trovato vari colleghi a festeggiarlo all’uscita del carcere. Come Liu, un altro reporter investigativo, Chen Baocheng, del settimanale finanziario Caixin, era stato rilasciato su cauzione un mese fa, dopo circa un anno di detenzione. Era stato arrestato per aver partecipato ad una protesta per bloccare la demolizione di case nel suo villaggio.

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La Cina respinge le accuse americane dopo espulsione giornalista Nyt

La Cina respinge le accuse americane, espresse ieri in un comunicato del Dipartimento di Stato, circa la sua decisione di non rinnovare il visto a un giornalista del New York Times. Per Hong Lei, portavoce del ministro degli esteri cinese, la questione è in ossequio alle leggi e i regolamenti interni alla Cina, avendo il giornalista in questione, Austin Ramzy, non rispettato le leggi. Il portavoce ha spiegato che Ramzy era in Cina come corrispondente del settimanale Time fino a maggio, quando lasciò il lavoro e restituì la tessera giornalistica. Secondo le leggi cinesi, in quel momento il suo visto cinese era scaduto. Poco dopo, il New York Times presentò alle autorità di Pechino una domanda per Ramzey affinchè ricevesse le credenziali da giornalista residente in Cina, domanda che non è stata ancora approvata. Il giornalista, secondo Hong Lei, non avrebbe mai cambiato il suo visto e il suo permesso di residenza dopo la fine del lavoro con Times e avrebbe usato, cosa che “costituisce una violazione delle leggi e dei regolamenti in Cina” come ha detto Hong Lei, il vecchio visto e il vecchio permesso di residenza per stare nel paese e viaggiare. Al giornalista era stato dato un visto di 30 giorni, per “questioni umanitarie” con l’impossibilità di lavorare, dal momento che il Nyt aveva chiesto un aiuto visto che Ramzy aveva ancora delle questioni pendenti in Cina. Alla scadenza, Ramzy ha dovuto lasciare il paese ma, secondo il portavoce, non è stato “allontato né deportato”. “La Cina esprime il suo dispiacere – ha detto Hong Lei – non accettiamo le accuse ingiustificate dalla parte americana e gli chiediamo il rispetto dei fatti e di usare azioni e parole caute”. Il portavoce ha ribadito che la Cina continua a dare il benvenuto ai giornalisti stranieri continuandone a proteggere i diritti e gli interessi secondo la legge, ma chiede loro di osservare i regolamenti e le leggi cinesi. Il caso di Ramzy arriva 13 mesi dopo l’allontanamento di un altro giornalista americano, Chris Buckley. Anche in quel caso, la Cina addusse motivi di lavoro, in quanto il giornalista non aveva comunicato il cambio del datore di lavoro dalla Reuters al New York Times. Il quotidiano americano era nell’occhio del ciclone in Cina per aver pubblicato una inchiesta sui beni milionari dei partenti dell’allora premier Wen Jiabao.

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Chiede più diritti, professore cacciato da università

Un professore universitario è stato licenziato per aver scritto un libro nel quale criticava il sistema politico cinese, chiedendo maggiori diritti civili. Zhang Xuezhong è professore alla facoltà di legge nella East China University di Shanghai era stato allontanato dalla cattedra in agosto, ma tenuto in servizio. Ora il rettore lo ha informato del fatto che, non avendo ammesso i suoi errori, il suo contratto sarà terminato alla fine di dicembre. Gli errori di cui sarebbe colpevole, sono legati in particolare ad un libro, ‘Il nuovo senso comune’, pubblicato online e nel quale mette in dubbio la legittimità del governo del partito comunista. In altri articoli, il professore ha chiesto maggiori diritti nel Paese e più riforme, mentre a maggio scrisse una lettera al ministro dell’Educazione chiedendo la fine delle lezioni e dei test sul marxismo nelle università.

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Ispezione in uffici bloomberg a Shanghai e Pechino

Le autorita’ cinesi hanno compiuto in novembre delle ”ispezioni” nelle sedi dell’agenzia d’informazione Bloomberg a Pechino e a Shanghai, secondo la rivista americana Fortune. Si tratta, scrive la rivista, di ”un chiaro segno di irritazione” da parte delle autorita’. Ieri e’ stato impedito ad un giornalista della Bloomberg di assistere alla conferenza stampa del premier britannico David Cameron, che e’ in visita in Cina. La Bloomberg, una delle grandi agenzie internazionali, e’ nel mirino del governo di Pechino fin dalla scorsa estate, quando ha pubblicato un’inchiesta sulle ricchezze accumulate dalle famiglie di alcuni dirigenti politici, tra cui il presidente Xi Jinping. Secondo un articolo pubblicato dal New York Times, in novembre il direttore dell’agenzia Matt Winkler avrebbe bloccato la pubblicazione della seconda parte dell’inchiesta per evitare l’espulsione della Bloomberg dalla Cina. In una riunione con i suoi giornalisti, Winkler avrebbe paragonato la situazione in Cina a quella della Germania nazista alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. La Bloomberg ha smentito.

fonte: ANSA

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Bo XIlai presenta appello a sentenza di ergastolo

Bo Xilai, l’ex capo del partito di Chongqing condannato all’ergastolo per corruzione, ha presentato appello davanti all’Alta Corte della provincia dello Shandong. Lo riferisce la stampa locale. Bo è stato condannato all’ergastolo il 22 settembre scorso per corruzione, abuso di potere e appropriazione indebita. Già nei giorni immediatamente successivi alla condanna si erano diffuse voci circa la volontà dell’ex politico di fare appello contro la sentenza da lui definita ingiusta. Durante le udienze Bo Xilai ha cercato di scardinare le accuse a suo carico e confermate anche dalle testimonianze della moglie, Gu Kailai, in carcere per l’omicidio dell’uomo d’affari britannico Neil Heywood. Accuse che erano state confermate anche dal suo ex braccio destro, il super poliziotto Wang Lijun, condannato a 15 anni per tradimento, per aver accettato tangenti per un valore di oltre tre milioni di yuan, per abuso di potere e uso della legge a fini personali.

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Bo Xilai vuole chiede l’appello alla sentenza di condanna

Secondo voci che si stanno rincorrendo su internet, Bo Xilai, l’ex papavero cinese condannato ieri all’ergastolo, ha presentato appello alla sentenza. Anche se mancano conferme ufficiali, la voce si sta facendo insistente. Sin da prima che il tribunale emettesse la sentenza di condanna per corruzione, abuso di potere e appropriazione indebita, si erano diffuse le voci che l’ex segretario del partito di Chongqing, di Dalian, ex ministro del commercio cinese ed ex governatore del Liaoning, avrebbe presentato ricorso se condannato. Alla fine della lettura della sentenza, ieri mattina dinanzi alla corte Intermediate di Jinan, nella provincia orientale dello Shandong, un portavoce del tribunale aveva detto che Bo Xilai non aveva espresso pubblicamente il desiderio di ricorrere. Secondo la legge cinese, il condannato ha dieci giorni di tempo per proporre appello.

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Mano dura contro Bo Xilai, prigione a vita

E’ stata una corte della città orientale di Jinan, nella provincia dello Shandong, a scrivere la parola fine alla saga di Bo XIlai, uno dei più potenti e più in vista uomini politici in Cina negli ultimi anni, uno di quelli destinati, a detta dei più, ad occupare posti di rilievo nel gotha della politica cinese. Con una sentenza all’ergastolo (che molti osservatori cinesi e internazionali dicono scritta dai vertici del Partito Comunista Cinese), che somma il carcere a vita per corruzione a 15 anni per appropriazione indebita e a 7 per abuso di potere, è stato messa, per ora, la parola fine al “processo del secolo”, l’ultimo atto della storia più scabrosa che ha scosso la Cina da decenni, probabilmente la più seria dal punto di vista politico dal 1976, da quando Jiang Qing, vedova di Mao Zedong, fu arrestata insieme ai suoi sodali della Banda dei quattro per essere poi processata tra il 1981 e il 1982. Una storia di tradimenti, di tangenti, di omicidi, di politica, che potrebbe sembrare uscita dalla penna del miglior scrittore di gialli se non fosse vera. Dinanzi a 116 selezionate persone, tra le quali il primo figlio di Bo Xilai e due suoi fratelli, il presidente della corte, Wang Xuguang, ha detto che il 64nne ex papavero cinese ha “gravemente danneggiato gli interessi del paese e del popolo, avendo commesso seri crimini”. Concetto espresso più tardi anche in un editoriale dell’organo del partito, che uscirà domani ma che è stato anticipato a grandi linee in serata dall’agenzia Nuova Cina, secondo il quale “condannando Bo Xilai in ossequio alla legge si rispetta pienamente il principio che nessuno è esentato dalla disciplina del partito e dalla legge nazionale e chiunque sia involto in faccende di questo tipo deve essere indagato e severamente punito secondo la legge”. In queste parole, anche il senso politico della condanna a Bo Xilai, ultima e più importante vittima della campagna anti corruzione voluta dal presidente Xi Jinping (altro principino rosso). Corruzione che, come ricorda l’editoriale del Quotidiano del Popolo, “è ancora dilagante e viene nutrita fortemente sul territorio”. La sentenza è stata mediatica, doveva colpire la gente, far capire che con il partito e i suoi valori non si scherza: la corte ha annunciato i fatti salienti della condanna sul suo account di Sina Weibo, il Twitter cinese, dove ha postato anche le foto di Bo Xilai in pantalone nero e camicia bianca, in manette tra due poliziotti. La televisione di stato, ha seguito a fondo l’evento. Bo ha fatto di tutto per difendersi. Nei cinque giorni di processo dal 22 al 26 agosto scorsi, ha accusato i suoi accusatori: sua moglie Gu Kailai (all’ergastolo per l’omicidio dell’uomo d’affari britannico Neil Heywood) in primis, dicendo che è pazza; il suo ex braccio destro e primo accusatore Wang Lijun, dicendo che aveva suoi interessi e che era l’amante di sua moglie; smentendo la confessione che aveva fatto ammettendo alcune accuse, dicendo di averla fatta solo dietro torture. I giudici hanno negato tutte queste circostanze e lo hanno ritenuto colpevole di aver intascato 20,44 milioni di yuan (2,5 milioni di euro) di tangenti in soldi e beni: 1,1 milioni direttamente lui, il resto tramite sua moglie. Tra questi, anche una lussuosa villa nel sud della Francia. Bo si sarebbe anche appropriato di 5 milioni di yuan di denaro pubblico, mentre sua moglie e suo figlio (che studia negli Usa) avrebbero avuti centinaia di milioni in viaggi. Nei prossimi dieci giorni Bo può presentare appello e fra 13 anni potrebbe uscire comunque sulla parola. Per intanto, si aprono per lui le porte della prigione di Qincheng a Pechino, considerato un albergo a cinque stelle, che ospita altri ex esponenti dell’establishment cinese e che ha ospitato anche la vedova di Mao. In una cella singola di 20 mq, con bagno, alti soffitti, finestre e riscaldamento, Bo non sarà costretto a vestire con il “pigiama a righe” e potrà, secondo quanto è scritto su Sina, avere latte al mattino e una selezione di zuppe e pasti per pranzo e cena. Dopotutto, è un principino.

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