La Cina rappresenta un ‘Eldorado’ per le aziende italiane ma resta ancora un mercato difficilmente accessibile, ”quasi chiuso” a causa di una burocrazia ”sempre più crescente”. Gli imprenditori italiani si auspicano quindi che l’impegno di Pechino a rafforzare ”il ruolo decisivo” del mercato nell’economia nazionale non resti solo una ”promessa generica”, ma che si traduca in una ”semplificazione” nell’accesso al Paese da parte delle aziende estere. Per il settore alimentare, dice Luigi Scordamaglia, consigliere di Federalimentare per l’internazionalizzazione, le potenzialità del mercato cinese ”sono uniche ed immense”, sottolineando che ”nel 2020 i consumi alimentari in Cina raggiungeranno i 4.000 miliardi di dollari, superando Ue ed Usa”. Ma al momento il quadro ”è insoddisfacente”, spiega Scordamaglia, con la Cina che rappresenta solo il decimo mercato per l’export alimentare italiano a causa soprattutto di ”barriere non tariffarie”. Infatti numerosi prodotti agroalimentari italiani, come le carni, continuano ad essere vietati all’importazione in Cina. ”Gli unici prodotti a base di carne ad essere ammessi sono i prosciutti con 313 giorni di stagionatura”, aggiunge Scordamaglia, denunciando il fatto che i cinesi ”non approvano i nostri impianti di trasformazione in Italia”. Un’azienda che ha fatto molto bene in Cina è la Falc, produttore di calzature per bambini, presente sul mercato da oltre 10 anni e che nel 2012 ha ricevuto il premio ‘China Award’ per i suoi successi commerciali. ”Siamo partiti con una joint-venture nel 2003 ed ora operiamo con un partner locale”, dice un rappresentante della società, sottolineando però che ”non è un mercato semplice, è difficile entrarci, bisogna essere molto organizzati”. L’azienda marchigiana, fondata nel 1974 a Civitanova Marche, per il futuro ”punta molto sulla Cina” per ”le grandi potenzialità” che offre il gigante Asiatico. Alcuni esperti, come l’avvocato Riccardo Rossotto, senior partner di R&P Legal, e consulente per l’internazionalizzazione delle Pmi italiane in Cina, avvertono però che il Paese è entrato ”in una nuova fase di modernizzazione” e deve affrontare questioni tipiche di un paese industrializzato, come ad esempio quello sull’ambiente o sui diritti dei lavoratori, che fino ad una decina di anni fa erano completamente ignorati. Problemi quindi che si ripercuoteranno anche sulle aziende italiane che vorranno fare business in Cina. Da tempo, sottolinea Rossotto, ”segnali e comportamenti crescenti ci dicono che i cinesi non sono contenti della presenza di aziende straniere” in Cina.
Alfonso Abagnale per ANSA