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Indennizzo per donna detenuta illegalmente in cimitero

Il governo cinese paghera’ un’ indennizzo alla donna che e’ stata illegalmente detenuta per tre anni in una baracca che si trova all’ interno di un cimitero. Il caso della donna, Chen Qingxia, e’ emerso in dicembre, in seguito alle denunce di cittadini che erano venuti a conoscenza dei fatti. La donna era stata arrestata dalla polizia della sua provincia, l’ Heilongjiang, nel nordest della Cina, per impedirle di recarsi a Pechino a denunciare il caso del marito, Song Lisheng, che era stato condannato a 18 mesi di ”rieducazione attraverso il lavoro” – ingiustamente, secondo la donna. Sei poliziotti sono stati licenziati e il governo locale ha promesso che fara’ di tutto per ritrovare il figlio della coppia, sparito dopo l’ arresto della madre. E’ la seconda volta in pochi giorni che le autorita’ cinesi intervengono a favore dei ”petitioners” (postulanti), che si recano a Pechino dalle province per denunciare le ingiustizie subite dalle autorita’ locali. All’ inizio di questa settimane tribunale di Pechino ha condannato dieci persone che avevano illegalmente arrestato alcuni ”petitioners” e averli rinchiusi in una delle cosiddette ”prigioni nere”, cioe’ illegali.

fonte: ANSA

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Provincia dello Yunnan limita rieducazione attraverso il lavoro

La provincia dello Yunnan, nella Cina meridionale, ha deciso che per tre tipi di reato non si potranno più comminare condanne alla “rieducazione attraverso il lavoro”. La notizia è riportata oggi da numerosi organi di stampa cinesi. Non è chiaro se questo significhi l’ abolizione dei cosidetti “laojiao” – i campi nei quali si può essere rinchiusi per alcuni anni su decisione delle autorità di polizia – o se per altri reati si potrà ancora subire quel tipo di punizione amministrativa. Un alto funzionario della provincia ha dichiarato che le persone che stanno scontando condanne rimarranno nei “laojiao” fino al termine della pena. In gennaio un alto dirigente del Partito Comunista Cinese, Meng Jianzhu, ha affermato che la Cina dovrebbe abolire i laojiao. Per farlo, però, è necessaria una decisione dell’ Assemblea Nazionale del Popolo (Npc), il Parlamento cinese, che terrà in marzo la sua sessione annuale. Il “laojiao” non deve essere confuso coi “laogai”, i campi nei quali si scontavano le condanne al lavoro forzato. I “laogai” sono stati formalmente aboliti nel 1997 ma la condanna ai lavori forzati è ancora prevista per una serie di reati.

fonte: ANSA

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Il Guandong prima provincia ad annunciare stop a laojiao. Sarà vero?

Potrebbe partire dalla provincia meridionale del Guangdong l’abolizione del ‘laojiao’, ovvero il sistema cinese di rieducazione attraverso i campi di lavoro. Un primo importante passo, che darebbe il via – almeno in un secondo tempo – all’abolizione di questa pratica, in vigore dal 1950, anche nel resto del Paese. Il dipartimento di Giustizia del Guangdong ha reso noto che entro l’anno il laojiao scomparirà e gradualmente coloro che sono detenuti nei campi di lavoro, scontate le pene, torneranno a casa. Ma c’é chi resta scettico e pensa che si tratti solo di propaganda politica e che il giorno in cui il laojiao scomparirà è ancora molto lontano. Già all’inizio di gennaio si era diffusa la notizia secondo la quale il governo cinese stava prendendo in considerazione l’ipotesi di abolire i campi di lavoro. Ma poco dopo l’agenzia di stampa ufficiale, Nuova Cina, aveva affermato che il governo avrebbe effettuato solo una ‘riforma’, senza mai citare la possibilità della chiusura dei campi. Il sistema del laojiao, che ultimamente sta suscitando molte polemiche, prevede che la polizia possa inviare persone nei campi di rieducazione fino a tre anni (con possibilità di estensione di un anno, ufficialmente), senza processo. Normalmente vi vengono mandati coloro che si macchiano di reati minori, spacciatori e prostitute, ma anche oppositori al regime, dissidenti e appartenenti a fedi e religioni. Lo scorso mese di agosto suscitò molto clamore il caso di una donna condannata a 18 mesi nei campi di rieducazione per aver protestato contro il governo contro la pena di soli sette anni comminata agli uomini che tempo prima avevano rapito, stuprato e spinto alla prostituzione la figlia, allora solo undicenne. Il caso della donna destò l’attenzione e le proteste di accademici e dell’opinione pubblica, tanto che dopo circa una settimana il governo decise di liberarla. Ed è di questi giorni la notizia che la signora ha ora chiesto un risarcimento danni per ingiusta detenzione di 2.400 yuan (circa 260 euro) per il tempo trascorso nel campo di rieducazione. Il numero dei laojiao attualmente presenti in Cina non è chiaro. Secondo Nuova Cina, che diffonde dati relativi al 2008, sarebbero 350 i campi di rieducazione, nei quali sono rinchiuse 160.000 persone, mentre fonti televisive cinesi parlano di 300.000 reclusi. Secondo altre fonti, come ad esempio quelli forniti da alcune Ong americane, in Cina ci sarebbero 1.422 campi tuttora attivi. Sono stati ufficialmente aboliti nel 1997, invece, i ‘laogai’, i campi di lavoro nei quali si veniva mandati a scontare le condanne penali. Tuttavia, secondo molti esistono ancora, anche se vengono chiamati prigioni.

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Dopo campo di lavoro, una donna e’ rimasta chiusa tre anni in obitorio

Una donna cinese, dopo aver trascorso 18 mesi in un campo di lavoro, da tre anni è tenuta segregata in un obitorio in disuso. Lo riferisce il Global Times, che cita un servizio effettuato dalla Radio Nazionale cinese. Le vicissitudini di Chen Qingxia, questo il nome della donna, hanno avuto inizio nel 2007 quando si era recata a Pechino per protestare contro il governo che, a suo dire, avrebbe maltrattato suo marito, arrestato nel 2003 per essere entrato in una zona sottoposta a quarantena durante l’epidemia della Sars. Ma giunta a Pechino la donna fu arrestata e mandata per 18 mesi in un campo di lavoro. Suo figlio, allora dodicenne, durante il suo viaggio a Pechino, scomparve misteriosamente e di lui non si è saputo più nulla. Trascorsi i 18 mesi tuttavia, Chen, anziché essere rilasciata venne collocata in un edificio abbandonato nella città di Yichun, un ex obitorio. Ammalata e ridotta su una sedia a rotelle, la donna è sorvegliata 24 ore su 24 e le è consentito solo di avere contatti minimi con alcuni dei suoi familiari, tra i quali la sorella, che le porta ogni tanto cibo e medicine. “Voglio andare a casa, ho molta voglia di tornare a casa mia – ha detto la donna ad un reporter della radio che ha dovuto fingere di essere un familiare per poterla avvicinare – ma se me ne vado la polizia tornerà da me non mi lasceranno andare”. Il reporter ha poi raccontato di essere stato fermato dalla polizia, che lo ha vessato ispezionando la sua casa e sequestrando la scheda sim del suo cellulare. Da qualche settimana sui media cinesi sono rimbalzate notizie secondo le quali si starebbe pensando alla cancellazione o, comunque, alla revisione del sistema dei laojiao, i campi di lavoro ai quali si può essere inviati fino a tre anni senza nessun tipo di condanna formale di un tribunale.

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Si riparla di abolire i laojiao

Un alto funzionario cinese ha affermato che la chiusura dei campi di lavoro noti come ”laojiao” e’ ”imminente”, secondo la stampa cinese. Il funzionario, Chen Jiping della China Law Society, ha precisato in un’intervista al quotidiano China Daily che la chiusura deve essere sanzionata dall’Assemblea Nazionale del Popolo (Npc nella sigla inglese), il Parlamento cinese che terra’ in marzo la sua sessione annuale. I laojiao non vanno confusi con i laogai – i campi di lavoro nei quali si veniva mandati dopo una condanna penale – che sono stati aboliti nel 1997 (ma che secondo molti esistono ancora, anche se vengono chiamati prigioni). La detenzione nei laojiao e’ una misura amministrativa decisa dalle autorita’ di polizia, che possono infliggere condanne fino ai 3 anni senza che sia necessario l’intervento della magistratura. Nei laojiao sono detenuti di solito piccoli criminali, come gli spacciatori di droga al dettaglio e le prostitute. L’annuncio della chiusura dei laojiao era stato gia’ dato due settimane fa in dichiarazioni attribuite ad un membro del potente Politburo comunista.

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Governo pensa a revisione del sistema dei campi di lavoro. Li aboliranno?

La Cina potrebbe cancellare entro l’anno l’uso dei campi di lavoro, la pratica della “rieducazione attraverso il lavoro”, in vigore al 1957. La notizia è stata diffusa in mattinata da diversi messaggi su Weibo, il Twitter cinese. Secondo le informazioni, poi sparite dalla rete, l’annuncio sarebbe stato fatto da Meng Jianzhu, capo della Commissione per gli affari politici e legali del Partito, dalla quale si controlla il potentissimo apparato di sicurezza cinese. Secondo quanto circolava su internet, in un incontro Meng (che fino allo scorso 28 dicembre era ministro della Pubblica sicurezza) avrebbe annunciato l’interruzione della pratica della ‘rieducazione attraverso il lavoro’, i cosiddetti laojiao (abbreviazione di ‘laodong jiaoyang’). La notizia, confermata anche dal direttore del giornale del ministero della Giustizia cinese, è stata però parzialmente modificata dall’agenzia Nuova Cina che in serata ha comunicato che il governo cinese andrà avanti nella ‘riforma’, senza citare la possibilità della chiusura dei campi. In questi, la polizia può inviare persone fino a 3 anni (con possibilità di estensione di un anno, ufficialmente), senza processo. Negli ultimi mesi diverse volte la pratica era stata criticata anche dalla stampa cinese vicina al partito. In particolare ad agosto una donna era stata condannata a 18 anni per aver protestato chiedendo una pena pesante nei confronti dell’uomo che era stato condannato a sette anni per aver rapito, violentato e indotto alla prostituzione sua figlia di 11 anni. La donna fu liberata dopo una settimana dopo che giornalisti, scrittori, gente comune e accademici si mobilitarono in suo favore. Le critiche al sistema dei laojiao muovono anche dal fatto che la loro pratica è in contraddizione con la costituzione cinese. Non ci sono maggiori dettagli in cosa consista la riforma, né se debba portare alla soppressione della pratica. La riforma era comunque già contenuta in un libro bianco sulla giustizia pubblicato ad ottobre dalle autorità competenti e ci fu anche una raccolta di firme per la loro abolizione. Secondo Nuova Cina, che diffonde dati relativi al 2008, sarebbero 350 i campi di rieducazione, nei quali sono rinchiuse 160.000 persone, mentre altre fonti televisive cinesi parlano di 300.000 reclusi. Ma i numeri come sempre sono ballerini: secondo l’ultima edizione, 2008, del dossier della Ong americana Laogai Foundation (fondata da Harry Wu che ha trascorso in un laogai dal 1960 al 1979) in Cina ci sarebbero 1422 campi attivi. Il laogai è diverso dal laojiao: nel primo, chiamato prigione dal 1990, ufficialmente cancellato dal 1997 (ma la condanna ai lavori forzati resta), il condannato vi veniva spedito dopo una sentenza di tribunale per reati maggiori, non veniva pagato e perdeva i diritti politici. Nel secondo, invece, vengono rinchiuse persone ritenute colpevoli di reati minori (reati contro il patrimonio, prostituzione, consumo di droga) ma anche oppositori al regime, postulanti, religiosi e fedeli. Ricevono un modesto salario per il loro lavoro e non perdono i diritti politici. L’annuncio di oggi lascia il campo a molte speculazioni, soprattutto su cosa succederà a coloro che sono attualmente rinchiusi nei campi o cosa succederà a coloro che saranno ritenuti colpevoli in futuro dei reati che ora portano ai laojiao.

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Migliaia di arresti in Cina nella giornata dei diritti umani

Sono rimasti anche oggi in stato di detenzione migliaia di ”postulanti” e di dissidenti cinesi arrestati nei giorni scorsi dalla polizia cinese per impedire proteste nella Giornata internazionale dei diritti umani (che si e’ celebrata ieri). Lo hanno riferito organizzazioni umanitarie internazionali. ”Mi hanno imposto gli arresti domiciliari fino a martedi”’, aveva riferito Hu Jia, uno dei piu’ noti dissidenti cinesi uscito l’anno scorso di prigione dopo aver scontato tre anni e mezzo per ”istigazione alla sovversione”, accusa che con maggiore frequenza viene rivolta ai dissidenti. Tra gli altri e’ poi stato condannato per ”sovversione” a 11 anni di reclusione l’intellettuale Liu Xiabo, premio Nobel per la pace nel 2010. Secondo le denunce, ieri sono stati fermati migliaia di ”postulanti”, cittadini che dalle province arrivano nella capitale per denunciare i soprusi subiti dalle autorita’ locali, e scendono in piazza proprio in occasione della giornata dei diritti umani. La maggior parte degli arresti ha riguardato proprio persone giunte nella capitale cinese per chiedere giustizia o risarcimenti alle autorita’ centrali, in riferimento soprattutto a questioni legate alla requisizione forzata delle loro case o delle loro terre. Secondo quanto raccontato da testimoni a Radio Free Asia, dalla sola metropoli di Shenzhen, nel sud del Paese, sono arrivati a Pechino 50 autobus pieni di gente che gridava: ”Ridateci i nostri diritti”. I passeggeri degli autobus sono stati tutti portati a Jiujingzhuang, un centro di detenzione ”segreto” nei dintorni di Pechino, lo stesso dal quale centinaia di ”postulanti” erano stati rilasciati lo scorso 6 dicembre. Secondo Lin Minghao, giunto dalla citta’ nordorientale di Shenyang a Jiujingzhuang ieri sera, sarebbero state sottoposte a custodia fino a 5.000 persone, arrivate su oltre 60 autobus nei quali era stipata moltissima gente. Secondo il gruppo per i diritti umani Tianwang, che ha base nel Sichuan, i ”postulanti” si erano dati appuntamento alla stazione meridionale di Pechino. Dopo il fermo, alcuni di loro sono stati rilasciati, altri portati nei campi di lavoro. Intanto le autorita’ cinesi – secondo la denuncia di alcune organizzazioni cristiane – hanno revocato l’incarico di vescovo ausiliare di Shanghai a Ma Daqin, il presule ordinato lo scorso luglio e da allora in ‘ritiro’ forzato nel seminario di Sheshan dopo che aveva espresso la volonta’ di lasciare la chiesa patriottica cinese. Eppure Daqin era stato nominato vescovo ausiliario di Shanghai con l’approvazione papale e la sua ordinazione era avvenuta solo pochi mesi fa, il 7 luglio. Al termine della cerimonia, il presule aveva ufficialmente detto di voler lasciare l’Associazione della Chiesa Cattolica Patriottica Cinese (Chinese Catholic Patriotic Association, Ccpa), l’organizzazione statale che gestisce il credo cristiano e i suoi apparati in Cina. Una ”presa di posizione” che ora anche lui sta pagando.

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Abusi diritti civili, Human Right Watch denuncia polizia “irregolare”

La para polizia urbana cinese, anche nota come ”chengguan”, è stata denunciata oggi dall’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch che l’ accusa di commettere gravi abusi, nei confronti dei quali i cittadini cinesi non hanno possibilita’ di ricorso legale. In una conferenza stampa al Foreign Correspondent’s Club di Hong Kong, oggi, Sophie Richardson, Direttrice delle ricerche sulla Cina del gruppo, ha presentato un rapporto, intitolato ”Picchialo, rubagli tutto quello che ha” dove vengono descritti alcuni dei piu’ gravi abusi attribuiti a questa forza para-poliziesca, istituita per mantenere l’ordine nelle citta’. ”Si tratta di un gruppo relativamente poco noto all’estero, ma molto conosciuto in tutta la Cina, dato che i suoi metodi sono particolarmente violenti. I membri della Chengguan non hanno diritto di condurre arresti, ma di imporre multe, e ciò malgrado rinchiudono persone in prigioni illegali, portano avanti atti di estrema violenza e per quanto in teoria potrebbero essere citati in giudizio, ciò non avviene nei fatti”, ha detto. Creata circa quindici anni fa per supervisionare operazioni urbane quali i programmi di abbellimento delle città e la gestione del traffico, e promuovere la stabilità sociale,la Chengguang e’ ”di una brutalità che lascia sgomenti”, al punto che ”la sua esistenza sta portando ad una destabilizzazione sociale, e a un aumentare della violenza: l’ odio nei loro confronti, e l’ impossibilità di vedere giustizia fatta davanti ai loro abusi, e’ tale, che si hanno casi in cui alcuni ‘chengguan’ sono stati uccisi”, ha aggiunto Richardson. ”Non esistono dei codici di condotta applicati a loro che siano resi pubblici. Qualche anno fa siamo capitati su un manuale destinato ai ‘chengguan’, che dava precise istruzioni su come evitare di lasciare segni di violenza sul corpo di chi viene sottoposto a violenza. Un segnale molto inquietante del livello di impunita’ nel quale agiscono”, sottolinea Richardson, presentando dettagliate interviste con 25 persone, per casi di abusi che sono avvenuti dal 2009 al 2011. Per quanto sia difficile quantificare il numero di ”chengguan”, Human Rights Watch stima che nella sola Pechino vi siano circa 6000 uomini incaricati di ”mantenere la stabilita”’, e che il numero a livello nazionale potrebbe essere di alcune centinaia di migliaia di persone. ”Molte delle persone che vengono brutalizzate dai ‘chengguan’ sono venditori ambulanti, che vengono costretti a pagare multe meglio descrivibili come un ‘pizzo’, senza il quale non possono operare. I venditori ambulanti sono per lo più migranti interni, una delle categorie più vulnerabili,”, ha spiegato Richardson. Il rapporto dettaglia casi in cui i venditori ambulanti sono stati percossi, i loro carretti di mercanzia distrutti e la loro merce derubata. ”Non indossano divise” ha aggiunto Richardson, ”il che può rispondere alla domanda su chi fossero quelle persone in civile che stavano a guardia di Chen Guangcheng (il dissidente cieco emigrato sbato scorso negli Usa), nello Shandong: bulli e picchiatori, che spesso vengono arruolati nella chengguan”. Membri della forza para-poliziesca, inoltre, sono spesso associati ai violenti espropri e sgombri forzati di abitazioni, uno dei piu’ frequenti casi di abuso di cui si trovano vittime i cittadini. Fra le raccomandazioni dell’organizzazione, che questo gruppo teoricamente votato a che la legge sia applicata sia sottomesso ai normali parametri giuridici nazionali.

fonte: ANSA

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