Più della metà della popolazione della Cina ormai vive in città e nel 2030 si prevede che supererà il miliardo. Ma le megalopoli cinesi per ora fanno fatica ad assorbire l’urbanizzazione delle aree rurali e, fra villaggi “inglobati” dalle città e baraccopoli, per gli immigrati dalle campagne cinesi sono tempi duri. Molti di loro non hanno trovato di meglio che abitare in container al prezzo medio di 6 yuan al giorno (0,7 euro circa). A partire da Shanghai, questi moderni slum verranno presto distrutti anche nelle altre città cinesi per far posto a nuove abitazioni che, in teoria, dovrebbero essere alla portata degli immigrati. Le persone che abitano nei container – spesso affittati in blocco dai datori di lavoro – sono decine di migliaia anche nelle città di Shezhen, Chongqing, Nanchino. Nella capitale, Pechino, e in generale nel nord della Cina sono più diffusi i cosiddetti “villaggi urbani”, cioé piccoli Paesi che sono stati assorbiti dalle metropoli sorte in tempi record in tutto il Paese. Spesso nascosti dai grattacieli di recente costruzione, i villaggi urbani sono la meta preferita degli immigrati, che vivono ammassati nelle piccole stanze offerte dai loro abitanti originari. In quello di Dashengzhuang, alla periferia di Pechino, l’82% degli attuali abitanti è arrivato negli ultimi cinque anni. In grande maggioranza si tratta di giovani maschi. Secondo dati non ufficiali, nello stesso periodo 171 villaggi urbani sono stati demoliti nella capitale, dove ne rimarrebbero in piedi un centinaio. La necessità di accelerare il processo di urbanizzazione garantendo agli immigrati un livello decente di servizi è un pallino del nuovo premier Li Keqiang, 57 anni, numero due della nuova struttura gerarchia uscita dal congresso del partito comunista del novembre 2012 e dalla sessione annuale dell’ Assemblea nazionale del popolo, che si è conclusa a metà marzo. “L’urbanizzazione – ha dichiarato il premier – non significa semplicemente aumentare il numero dei residenti urbani o allargare le città…ancora più importante, si tratta di un cambiamento completo di modo di vita, da rurale a urbano in termini di struttura industriale, occupazione, ambiente nel quale si vive e sicurezza sociale”. Il fatto che la maggior parte degli immigrati sia illegale – cioé abbia ancora un “hukou” o permesso di residenza rurale – ha fatto crescere una società “nera”, nella quale non sono regolarizzate le scuole nelle quali studiano i figli degli immigrati, né le cliniche nelle quali vengono curati, spesso da medici non qualificati. Secondo Tom Miller, giornalista e sociologo americano autore del libro “The Urban Billion”, entro il 2030 un miliardo di cinesi vivrà nelle città. Il sorpasso della popolazione urbana su quella rurale è già avvenuto nel 2011, quando è risultato che il 51% degli 1,3 miliardi di cinesi viveva in realtà metropolitane. La principale difficoltà contro la quale si scontra la visione di Li Keqiang è costituita dagli gli interessi delle amministrazioni locali, per le quali la vendita della terra è la principale fonte di reddito. Le amministrazioni delle grandi metropoli non sfuggono alla regola. E resta il dubbio che la distruzione degli slum di container e dei villaggi urbani porti allo sviluppo di un’edilizia popolare e non speculativa. Di riforma – o addirittura di abolizione – del sistema dell’ “hukou” si parla da oltre dieci anni, senza che alcun passo concreto sia stato però intrapreso in questa direzione.
Beniamino Natale per Ansa