Altre due immolazioni pro Tibet, siamo a 51

Continua a bruciare il Tibet, portando a 51 (alcune fonti dicono 52) il numero delle immolazioni dei tibetani che protestano contro ‘l’occupazioné cinese del paese himalayano e per il ritorno del loro leader religioso, il Dalai Lama, in esilio in India. Quindici giorni dopo l’ultimo caso, a Ngaba (Aba per i cinesi, nella provincia del Sichuan), nel luogo che ha visto il maggior numero di immolazioni dal 2009 (27 casi), due giovani, Lobsang Kalsang, un monaco di 18 anni, e Damchoe, 17 anni, un ex monaco, si sono dati alle fiamme nei pressi del loro monastero, Kirti, ieri, intorno alle 11. Hanno gridato slogan per il Tibet libero e per il Dalai Lama, si sono dati fuoco, hanno fatto pochi passi e sono caduti, intonando in canto dei guerrieri tibetani. Portati via dagli agenti di polizia, sono morti poco dopo. Gli agenti hanno operato poi alcuni arresti, tra i quali il compagno di stanza di Kalsang. Uno degli ultimi predecessori dei due in questo gesto estremo, in un messaggio lasciato ai parenti, aveva scritto che sperava che in molti potessero seguire il suo gesto. Speranza che a quanto pare non è vana. Nessuno riesce a fermare le immolazioni: 51 dal 27 febbraio 2009, da quando Tapey, un monaco di Kirti si diede fuoco. Due anni senza episodi, poi 50 casi registrati dal 16 marzo 2011 quando Phuntsog, altro monaco di Kirti, si immolò. Da allora, quasi con la media di 3 immolazioni al mese, la protesta è andata avanti nonostante i pattugliamenti della polizia cinese, che gira con gli estintori. “Credo che questo numero ‘assurdo’ di autoimmolazioni con il fuoco – spiega Piero Verni, giornalista, uno dei massimi esperti del Tibet – sia la prova di quanto irriducibile sia il problema tibetano e, a mio avviso, dimostra due cose. La prima è che Pechino non riesce, nonostante la durezza della repressione, a normalizzare il Tibet e a chiudere una volta per tutte la partita. Dopo l’estesa e dura rivolta del 2008 tutte le aree tibetane rimangono in uno stato di insubordinazione permanente. La seconda è che l’amministrazione tibetana in esilio e lo stesso Dalai Lama non si sono resi conto di quanto profonda sia l’insoddisfazione del popolo tibetano. Oltre cinquanta torce umane che tragicamente illuminano i cieli del Tibet, ricordano al mondo che 64 anni di occupazione cinese non sono bastati per vincere la resistenza del popolo tibetano. Ma parlano anche del totale fallimento della politica conciliante e moderata portata avanti con caparbietà dal Dalai Lama”. Queste giovani vittime sono una spina nel fianco non solo di Pechino ma anche dello stesso Dalai Lama, che continua a perseguire, nonostante le proteste dei giovani tibetani della diaspora, la via di mezzo, non violenta. Anche il premier tibetano in esilio a Dharamsala in India, Lobsang Sangay, qualche settimana fa ha detto che le immolazioni sono contro l’impegno del movimento verso la non violenza, ma è giusto spiegare i motivi del perché questi muoiano, cosa che non ottengono dai media internazionali come è avvenuto ad esempio per la primavera araba. Uno dei due giovani immolatosi ieri, Damchoe, era il fratello di una delle due monache che si sono immolate e nipote di un altro monaco che ha avuto la stessa sorte. Kirti rimane un centro nevralgico: 9 immolati erano monaci di Kirti, 10 gli ex monaci di questo monastero. Della stessa regione di Ngaba erano 30 immolati. In totale ci sono stati 43 uomini e 8 donne; di 38 immolati si sa che sono morti, degli altri non si hanno notizie.

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